Continuare ad avere fede (Mc 5,21-43)

Il Vangelo di Marco

Il cammino del discepolo

Continuare ad avere fede (Mc 5,21-43)


Gesù e i suoi discepoli fanno ritorno all'altra riva, dalla terra dei pagani, si ritorna in terra di Israele, in Galilea. Sempre il movimento è scandito dalla barca, la chiesa nascente, che è punto di congiunzione di questi due mondi così apparentemente lontani. Di nuovo Gesù è lungo al mare, quasi a voler rimarcare questa tensione all'uscita e alla missione, che nei prossimi capitoli sarà nuovamente ripresa nell'invio dei discepoli. La solita folla lo accalca appena sceso quando ecco giungere ad inginocchiarsi ai suoi piedi il capo della sinagoga, Giairo, il cui nome in ebraico significa "Colui che Javhe risveglia". Ovviamente Marco non ci dice in che città siamo, non ha alcun interesse ad indentificare Giairo con un qualche personaggio storico, ma vuole rimarcare il ruolo e il nome di questo uomo: immediatamente è riportato alla mente il luogo di culto degli israeliti, la sinagoga, di cui lui è a capo. Colui che ha un ruolo molto spesso avverso a Gesù ora si prostra a lui, cercando aiuto. La figlia infatti, di cui non sappiamo nulla se non che ha dodici anni, sta per morire e non sembra esserci speranza. Un uomo di grande autorità come il capo della sinagoga non può far altro che gettarsi ai piedi di Gesù, chiedendo la salvezza e la vita, un gesto di riconoscimento della sua autorità. Il maestro acconsente alla richiesta e si mette in cammino per giungere alla casa dell'uomo, con tutto il seguito di discepoli che gli fanno la calca attorno. La folla è sempre segno del grande ascendente del nazareno, ma anche di distanza da lui. Risulta molto curioso come Gesù, sempre immerso nella calca frenetica di chi vuole toccarlo o vuole parlargli, difeso e scortato dai Dodici, riservi un' attenzione particolare per queste figure che incontra sul suo cammino e che lo colpiscono. Ancor di più rimaniamo sconcertati davanti alla scena che Marco ci presenta. Mentre Gesù cammina in questa città misteriosa, verso la casa di Giairo, una donna malata, affetta da perdite di sangue uterine croniche, lo vede arrivare. La poveretta vive una condizione terribile di abbandono. Infatti, la sua condizione non solo potrebbe comportare una sterilità, in senso strettamente medico, che nel mondo antico era una maledizione molto grave (basti pensare alle vicende dei patriarchi Abramo, Isacco, o nel Nuovo testamento alla nascita dei Giovanni Battista, tutti episodi in cui Dio benedice una coppia con una nascita assolutamente inaspettata, praticamente impossibile). Per di più, anche se per lei fosse possibile partorire, la sua condizione le negherebbe comunque questo dono. Infatti, la perdita continua di sangue la confina in uno stato di impurità perpetua, che quindi la rende inavvicinabile da ogni uomo. Nel capitolo 15 del Levitico, sono riportate tutte le norme di purità da rispettare nei confronti delle donne durante il ciclo mestruale. Un tempo di sette giorni di impurità era previsto per chi avesse contatti con il sangue della donna e persino gli oggetti e il letto su cui dormiva potevano essere fonte di contagio. Ovviamente, nel caso di perdite più lunghe del normale o prolungate nel tempo, l'impurità si sarebbe protratta fino all'esaurimento del flusso sanguigno, a cui sarebbe seguito il rituale di purificazione. Questa povera donna viveva probabilmente come un 'emarginata, sterile, incapace di dare vita, allontanata da tutti, parcheggiata in un angolo. Molti trattati medici affrontano il problema mestruale, cercando di trovare un rimedio a tale fenomeno, spesso senza successo (vedi Sorano di Efeso (98 a.C.) che scrive un trattato di ginecologia, il "Gynaecia", che sarà un riferimento medico fino al medioevo). Nel mondo ebraico, il sangue è simbolo di vita; il perderlo continuamente significa in qualche modo essere in uno stato di morte e di continuo indebolimento. Questa donna sta morendo, non solo fisicamente, ma soprattutto socialmente.
Nella mente della poveretta, al vedere Gesù che passa, viene in mente un'idea folle: dopo aver speso tutti i suoi averi nelle cure inutili dei dottori, si è convinta che toccando anche solo il lembo del mantello di Gesù otterrà la guarigione. 
Il mantello è il segno del riscatto della sposa, rimasta vedova, come riportato nel libri di Rut (Rut 3,9). Inoltre, la profezia del profeta Zaccaria evoca l'immagine degli uomini in cerca di Israeliti da seguire, attaccati al lembo del mantello, perché diranno "abbiamo compreso che Dio è con voi" (Zac 8:23). Gesù è Dio con noi, la speranza a cui questa donna vuole aggrapparsi, il manto del mantello che la riscatta.

Da notare che in comune con la figlia di Giairo, ritorna il numero dodici, come le tribù di Israele: la donna è malata da dodici anni, come l'età della fanciulla morente.
Proprio in questo momento cominciano i problemi: la donna si lancia verso Gesù e tocca il suo mantello, in un gesto sconsiderato e folle, che potrebbe costarle la morte per lapidazione. Con quest'azione, rende l'abito del maestro impuro e, per contatto, anche il suo portatore.
La scena diventa ancora più assurda perché Gesù si accorge di tale tocco indiretto, mentre è praticamente accalcato a tutta la folla intorno, strattonato e tirato. Tutto si ferma di colpo; la donna si sente guarita da una forza misteriosa; il Cristo arresta la sua marcia e domanda chi lo abbia toccato. I discepoli, ottusi come al solito, non capiscono nulla di ciò che è accaduto. Si stupiscono di quello che dice Gesù, essendoci così tante persone, che meraviglia dovrebbe esserci a sentirsi strattonati? Inoltre, sta parlando ad una donna in pubblico, non esattamente una cosa molto dignitosa per il tempo. La questione però è molto più grave ed importante, in quanto ciò che il loro maestro ha percepito è un flusso di energia uscire da lui. La scena è quella della guarigione mediante un potere misterioso, tipica della figura del "Theios Aner", uomo con poteri semidivini che compie prodigi con la sola imposizione delle mani, presente nella letteratura greca (vedi Apollonio di Tiana e le accuse del filosofo Celso verso Gesù, di essere un santone e nulla di più, nel"Contra Celsum" di Origene). Anche nella traduzione biblica abbiamo esempio di questo tipo, nella persona dei due profeti Elia ed Eliseo, nei libri dei re (1 Re 17; 2 Re 4).

Quando Gesù chiede spiegazioni, la donna tremante di paura si fa avanti e confessa il suo gesto. Invece di preparare le pietre per laidarla, il Signore la chiama affettuosamente "figlia", rassicurandola affermando che la sua fede l' ha salvata e che può andare libera dal suo male.
Il senso del racconto non è nel miracolo in sé ma nel flusso guaritore che va da Gesù alla donna. Infatti, mentre il maestro è strattonato, tirato da ogni parte dalla folla che sempre lo segue, in una frenetica lotta per farsi vicino, la donna che lo sfiora appena riceve un dono che agli altri precluso. Gesù non è un santone, non è come i medici che la hanno visitato finora. Non è lui a guarire ma Dio, la Sua forza passa tramite Gesù per mezzo della fede. Tutti gli altri che sono lì attorno non ricevono nulla: Gesù è la porta, la via per la salvezza, la fede invece è la chiave che dischiude la grazia di Dio. I discepoli sono ancora ciechi, lontani da questa prospettiva e non vedono alcuna differenza tra la folla che in continuazione si affolla intorno al maestro e al tocco silente della donna che ripone in Lui tutta la sua vita.

Il percorso di Gesù va avanti, verso la casa di Giairo, ma ecco che giungono dall'abitazione dicendo che la ragazza è morta. Con un tatto e una delicatezza ineguagliabili, questi soggetti chiedono perché il capo della sinagoga importuni ancora il Signore, dato che orami la figlioletta è morta, andata per sempre. Giustamente, è ormai è morta e c'è ben poco da fare, che cosa vogliono!
Gesù però risponde a Giairo (ignorando gli altri, giusto per non essere offensivi) e gli dice di continuare a d avere fede.

Raggiunta l'abitazione, la folla viene congedata, solo i tre discepoli prediletti possono entrare in casa, dove già si stanno svolgendo i canti funebri. Addirittura in certe occasioni, era prassi assoldare delle donne che piangessero e urlassero in lutto del morto.
Davanti a tale scena così esagerata Gesù spiazza tutti chiedendo che hanno da piangere e sbraitare tanto, visto che la fanciulla sta dormendo. Inutile dire che tutti prendono per i fondelli il Signore, ribadendo che la ragazza è morta, non c'è speranza, è finita.
Gesù li caccia via malamente e rimasti i discepoli fidati e la famiglia della fanciulla si appresta a compiere una delle sua scelleratezze. Prende la fanciulla per mano (tocca un morto, che per Numeri 19,11 comporta ancora uno stato di impurità che perdura per sette giorni) e le dice "Talita kum" che in aramaico significa "fanciulla, alzati". Ecco che la bambina si rianima, riprende vita e si alza e cammina, addirittura le viene dato da mangiare, tutte azioni che rimarcano il fatto che è viva. Anche il termine per designare la figlia di Giairo cambia: da morta era una bambina, mentre ora è utilizzato il termine ragazza. Non è un caso nemmeno l' età, che è esattamente quella che sanciva il passaggio di una bambina all'età adulta e da matrimonio (lo diremmo precoce oggi ma questa era l'usanza del tempo).

I due brani sono incastonati uno nell'altro e hanno il medesimo tema chiave: la fede che salva. La donna malata e la bambina hanno in comune i dodici anni, che richiamano alla mente Israele e le tribù da cui è composto. Entrambe non sono più in grado di dare vita, ma la stanno perdendo. Una non vedrà mai l'età adulta e non ha la possibilità di avere uno sposo, l'emorroissa invece non ha una progenie e rimane sterile. La fede in Gesù però le salva e le rende nuovamente portatrici di vita. Contro però la parola che Gesù rappresenta, la salvezza di dio resa manifesta, ci sono tutti gli intoppi che rendono impossibile giungere a Gesù. Per la donna emorragica ecco che esporsi verso Gesù significa rischiare la vita, perché vuol dire violare la legge in più di un punto. Lei mette la sua vita nelle mani di Gesù e di Dio e ottiene la salvezza. Nessuno dei discepoli comprende il gesto della donna, la folla intorno a Gesù è un'ostacolo a chi ha realmente desiderio di salvezza, spinto dalla fede più che dalla superstizione e dal folclore. Vedremo nella scena successiva che solo la fede salva. Gesù può ciò che fa per fede, non perché abbia un potere rubato a Dio o da poter ostentare. Dio agisce tramite lui per mezzo della fede. Lui ha fede nel Padre e noi in lui; la potenza di Dio agisce nella storia ed è resa manifesta nella figura di Gesù.

La fede è anche ciò che muove Giairo, altro esempio dell' Israele che, dalla sterilità prodotta dall'ipocrisia delle norme, passa alla fede portatrice di vita. Lui è capo della sinagoga ma non ha nessun potere di salvare al figlia. Gesù invece, agisce come mano di Dio.

Il brano sottolinea come la fede sia il presupposto più grande per aver la salvezza, mentre il mondo intorno insiste dicendo che tutto è inutile. Non ha senso battersi per il bene, in quanto il male dilaga e non può essere vinto, non si crede che Dio guidi la storia verso il meglio. Tutto viene sempre gettato sulle spalle degli uomini, che però finiscono per fallire, perché spinti dalla oro temporanea volontà, che si infrange contro il fallimento causato dalla nostra stessa natura. Certo non è la passività il corretto spirito con cui porsi davanti al mondo. Il gesto dell'emorroissa e di Giairo invece sono identificativi del vero cristiano. Come nel libro di Giuditta o di Giona, dove il protagonista mette a repentaglio la propria vita per avere la salvezza propria e di coloro a cui è legato, anche in questo caso la donna malata e il capo della sinagoga vanno contro la mentalità, il blocco di ciò che è considerato convenzionale e agiscono, mossi dalla fede. La comunità cristiana che legge questo vangelo poteva vedere in queste due figure l'emblema della loro condizione, separati dalla vecchia mentalità, professando una fede che gli altri reputano assurda (da notare come Gesù sia deriso davanti all'affermazione che la bambina è viva e dorme soltanto; le stesse ingiurie saranno state rivolte ai primi cristiani per la loro verità proclamata su Gesù e la resurrezione). Gesù, davanti alle difficoltà, all'assurdo della realtà che sembra inguaribile e senza rimedio, incita a mantenere la fede, senza perdersi d'animo, solo questo importa.

In tempi così duri, quando la morte e la malattia dilaga, la crisi avanza e la fiducia nell'umanità vacilla, solo continuare ad avere fede è la risposta che possiamo darci, per non gettare la spugna ma guardare oltre, pronti a dare la nostra vita per il bene ultimo, a cui Dio fa tendere la storia.

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