Il seme che porta frutto (Mc 4,1-20)

  Il Vangelo di Marco

Il cammino del discepolo

Il seme che porta frutto  (Mc 4,1-20)

Facciamo un salto indietro e torniamo lungo il mare, luogo di ascolto e di importanza significativa per la missione, dove Gesù dalla barca, posta in mezzo al lago di Tiberiade, insegna alle folle che sono a riva. Comincia la sezione delle parabole di Marco, una serie di rivelazioni sul Regno di Dio che non sono dirette ma parafrasate in racconti, a volte paradossali, che da un lato utilizzano termini ed immagini note agli ascoltatori, ma dall'altra risultano poco chiare e certo non esplicite. Così, riveste un ruolo chiave la capacità di porsi all'ascolto da parte del discepolo, che deve possedere la corretta chiave di lettura per comprendere il messaggio che si cela dietro al simbolo utilizzato da Gesù. In Mc 4,10-12 leggiamo il motivo della scelta di predicare per mezzo delle parabole, al fine di separare chi è dentro e ha la capacità di comprendere da chi invece è fuori e non capisce il segreto del regno di Dio. Chiaramente, i discepoli sono scelti per avere la conoscenza privilegiata e rivelativa del messaggio del Cristo. Si può quindi intendere che il vangelo che porta Gesù  non sia da rivelare a tutti ma destinato per pochi eletti e per chi ne acquisisce la conoscenza rivelata. 
Però, a ben guardare, la questione è più profonda. Per spiegare questa difficoltà e chiarire il possibile malinteso, Gesù narra una parabola, un racconto esplicativo con immagini di uso quotidiano. Il protagonista del racconto è un seminatore, che esce di casa e getta i semi su tutti i terreni che incontra. Tale pratica è stata ricondotta ad una reale usanza nel mondo semitico, ma a noi interessa poco sapere se quello che fa il seminatore è coerente, anzi la parabola ha maggior effetto se ha un carattere paradossale. I semi cadono su tanti terreni, anche quelli che hanno meno possibilità di portare frutto. Alcuni infatti, a causa di varie circostanze, come il calore del sole, il terreno roccioso, i rovi o altri fattori esterni, non riescono a crescere in pienezza e a portare frutto. Gesù spiega la parabola solo ai discepoli e si potrebbe pensare che questo basti a renderli ottimi seguaci del Cristo. In realtà questo passaggio non è banale. A loro è dato un compito e una responsabilità molto grande: essere portatori del senso profondo delle parole del loro maestro. Tuttavia, loro stessi sono in  cammino per interiorizzare le parole dure e difficili di Gesù. La spiegazione della parabola evidenzia le criticità dell'accoglienza del messaggio evangelico, che è destinato a tutti, ma non in grado di essere compreso ed accettato se non da pochi.

Il Seminatore, raffigurante  Dio o forse Gesù stesso, porta la parola agli uomini, sotto forma di un seme (presente anche in 4 Esdra 9,30-37 l'analogia tra insegnamento divino e la semina), qualcosa di piccolo ma soprattutto ancora in potenza, non pienamente sviluppato e quindi non esplicitato. Il verbo, la rivelazione di Dio sul regno non è immediata, passa invece per una crescita e uno sviluppo che richiede tempo e una lenta maturazione. La differenza però la fa il terreno su cui cade la parola, il cuore e la mente dell'uomo che ascolta. 


Il primo tipo di terreno è la strada, dove tutti passano e camminano, trafficata, frequentata da molte persone, soggetta a tante distrazioni. La figura degli uccelli che vengono a mangiare i semi raffigurano Satana, il maligno. che disperde la parola di Dio (vedi 1 Enoch 90,8-13; Apocalisse di Abramo 13,2-24, dove i demoni sono rappresentati come uno stormo di uccelli e in "Libro dei Giubilei 11,11-14" dove Mastemà, signore dei demoni, manda dei corvi a rovinare la semente). La strada è il luogo in cui ci perdiamo perché distratti da troppe incognite, tentazioni, voci che ci rendono sordi alla parola. Tutti che parlano e vomitano sentenze, stupidi che si ergono a maestri, critici tuttologi di ogni cosa. Alla fine, tanto rumore per nulla. Non c'è terra in cui poter crescere ma una barriera, un muro che respinge Dio. Un ateo potrebbe rientrare in questa categoria; non crede in Dio e coerentemente respinge quello che i credenti definiscono la Sua parola. Se non vedo nel mondo la presenza di Dio, non posso vedere nemmeno i suoi doni. In questo gruppo però rientriamo a volte anche noi cristiani, quando riteniamo che Dio non possa fare nulla per la nostra vita, non possa darci niente. Siamo credenti, seguiamo la dottrina e accettiamo i doni di Dio come se fosse un distributore automatico, per cui per 50 preghiere otteniamo una cura alle nostre sofferenze. Il seme viene gettato ma noi non vedendo la pianta lo buttiamo via. In tal senso molti atei sono meno cechi di tali cristiani e di fatti portano più frutto. 

Il secondo terreno, che è un probabile riferimento al nome stesso che Gesù da a Simone, cioè Pietro, è quello sassoso. In questo caso, il seme riesce a germogliare perché la terra non è molto profonda, ma le radici non riescono ad attecchire e il primo sole forte brucia la piantina che sta nascendo. Il riferimento al nome del discepolo è azzeccato: subito alla sequela di Gesù e al servizio della parola di Dio, ma basta un momento di difficoltà ed ecco che le basi non ci sono e si finisce per perdere tutto. Manca la costanza ma soprattutto le radici: la parola non è stata interiorizzata, si è pensato subito di aver capito tutto e invece non si era capito nulla. Atteggiamento tipico della nostra modernità il tutto e subito, tutto facile e immediato. Quando però i risultati migliori richiedono uno sforzo in più, si rinuncia con rammarico e delusione per pigrizia.

L'altro terreno è la terra piena di spine e rovi, che rappresentano le paure e le debolezze dell'uomo, che lo attanagliano e lo soffocano. Le vicissitudini della vita ci portano a smettere di credere, a pensare che Dio è una fregatura e che non ha senso continuare a sperare. Come una carie, tale convinzione ci logora sempre di più, fino a giungere alle radici, compromettendo tutta la struttura. 
Il seme è andato in profondità, è maturato e cresciuto come pianta, ma poi questa ha smesso di cercare il sole, e non lo ha trovato più, avvolta tra le erbacce che le sono nate intorno. 

Infine c'è il terreno buono, che porta frutto e lo moltiplica. Sono coloro che ascoltano la parola, non fermandosi ad una prima lettura, ma che maturano ed interiorizzano questo messaggio, non solo nel bene e nei momenti di gioia, ma anche in quelli di crisi, rafforzando le proprie radici. Davanti alle erbacce che soffocano, la pianta si erge più in alto e le sovrasta, puntando sempre al sole. Alla fine arriva il risultato della crescita e un semino da nulla, praticamente inutile, diventa una pianta che porta tanti frutti, alcune di più, altre di meno, ma comunque in grado di esser da sostentamento per altri.

Gesù raffigura il regno di Dio come il traguardo di un percorso molo lungo e difficile, che però trasforma qualcosa di insignificante in fonte di vita. Tutti ricevono il seme, ma non tutti riescono a portare frutto. 

Potremmo, inserendo una parabola parallela dei nostri tempi, rileggere il brano facendo il parallelo con un uomo che fa una dieta.  I terreni sono il modo in cui costui approccia il percorso dimagrante, il peso forma è il regno di Dio, il Quale invece riveste il ruolo di medico curante. 

Possiamo lasciarci convincere da chi ci dice di fregarcene, di mangiare, tanto la vita è breve, che ciò che non strozza ingrassa e tante altre stupidaggini. Potremmo anche cominciare motivatissimi i primi mesi, per poi gettare la spugna e tornare al peso di prima quando i chili persi cominciano a calare, settimana dopo settimana. Si potrebbe anche arrivare molto vicini al traguardo ma poi perderci perché in un momento di tristezza e depressione, quel bignè di troppo o il fast food ci tenta oltre misura e cediamo a Satana.

Tutto nella vita segue questa logica, lo studio, il lavoro e persino l'amore. Chi trova lavoro e non si impegna, non durerà al suo posto, chi non studia con costanza non potrà mai dire di sapere, chi non ama e non si impegna nel farlo tornerà sempre ad essere solo. 

Dio quindi dona il seme, qualcosa che non è compiuto ma che cresce dove trova terreno fertile e porta frutto in modo spropositato. Tutto però dipende da come il terreno risponde alla semente. La parabola mette in guardia da un rischio che tutti corriamo, atei credenti, bigotti e santi. Dio è all'opera, semina in noi una scintilla di divino, che brilla di una luce sfolgorante, ma come è espresso bene nell'inciso della parabola in Mc 4, 10-12, questo dono non è evidente, ma dipende dalla nostra predisposizione a vederlo. Un ateo non può vedere un miracolo, un bigotto concepisce solo la sua bella immagine di Dio. Citando Isaia 6,9-10 
"Guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e vanga loro perdonato"

Il regno si rivela a chi Dio lo cerca, non a chi lo respinge in blocco o chi lo trova preconfezionato in una scatola.  Il vero credente è rappresentato dal personaggio di Giobbe (interessante è leggere il libro, mettendolo in parallelo con la parabola di Gesù), che parla così in chiusura del libro a lui attribuito, dopo un duro confronto con Dio (Giobbe 42,1-6):

"Comprendo che puoi tutto, e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza avere scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. " Ascoltami e io parlerò, io ti interrogherò e tu istruiscimi". Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere." 


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